Ero un tennista ottimista, in fondo. Come potevo non esserlo?...
Avevo un gioco talmente a rischio che se non fossi stato ottimista, beh, ora non sarei qui a scrivere i miei ricordi. Invece giocavo nel modo più difficile che mi passava per la testa, e più difficile era più mi piaceva. Inclinazioni personali, credo. Anche perché a fondo campo a spallettare ci sarei potuto persino stare. Ma non mi piaceva, mi intorpidiva i sensi, mi avviliva il gusto della giocata, e mi avrebbe obbligato a prendere in considerazione gli strumenti del tennis, la racchetta, la pallina, mentre io porgevo attenzione solo ai miei avversari. E’ con loro che giocavo, contro quello che avevano in testa, contro i loro pensieri, i loro modi di fare, di essere. Li studiavo anche fuori dal campo. Sapevo come si sarebbero comportati in una certa situazione. La pallina era un mezzo, uno strumento. Oggi è tutto. Colpirla a più non posso, con precisione e violenza. Non mi piace. Del mio sport amavo sfidare gli avversari per quello che erano. Ed erano persone differenti da me, da capire, da esplorare.